Lettori fissi

mercoledì 24 giugno 2009

IMMOBILI: DAL 1° LUGLIO L'ATTESTATO DI CERTIFICAZIONE ENERGETICA OBBLIGATORIO PER TUTTE LE VENDITE


Dal 1° luglio scatta l'obbligo di «dotare» dell'attestato di certificazione energetica tutti gli edifici o porzioni di edifici trasferiti a titolo oneroso, come previsto dall'articolo 6, comma 1-bis, lettera c) del Dlgs 192/2005.

Per alcuni edifici non è necessario redigere il documento come: gli edifici inagibili, gli edifici che ugualmente non comportano un consumo energetico (portici, legnaie, ecc.)., gli edifici privi di qualsiasi impianto (per i quali non si può in alcun modo calcolare la prestazione energetica), i fabbricati isolati, con una superficie utile totale inferiore a 5 metri quadrati.

Sorgono spontanei, però, dei dubbi.

Il DLgs 112/2008, abrogando i commi 3 e 4 dell'articolo 6 del DLgs 192/2005, ha eliminato la sanzione della nullità del contratto di compravendita per chi non avesse allegato la certificazione al rogito.

L'obbligo di dotare l'immobile di una certificazione è comunque previsto dalla normativa nazionale vigente.

Pertanto, la violazione dell'obbligo di consegnare la certificazione, anche se non può invalidare l'atto di trasferimento, può essere fonte di responsabilità civile del venditore verso l'acquirente, quanto meno per la mancata informazione sull'inesistenza del documento.

Trattandosi di un obbligo previsto da una disposizione legislativa, l'acquirente ha il diritto di sapere che non è stato rispettato e conseguentemente agire in sede di trattativa sul prezzo.

Per quanto concerne le modalità per il rilascio dell'attestato di qualificazione energetica, in assenza delle linee guida nazionali e dei decreti che dovrebbero individuare gli esperti e gli organismi cui affidare le verifiche, trovano applicazione le disposizioni regionali in materia.

Fino al 30 giugno, l'obbligo di consegnare all'acquirente l'attestato di certificazione energetica è previsto per gli edifici di nuova costruzione, ossia quelli per i quali è stato richiesto il permesso di costruire o presentata la Dia dopo l'8 ottobre 2005; gli edifici radicalmente ristrutturati; gli edifici sui quali dopo il 1° gennaio 2007 sono stati compiuti interventi agevolati per il risparmio energetico; gli edifici pubblici per i quali dopo il 1° luglio 2007 sono sona effettuati interventi di sostituzione degli impianti.

(Avv. Marco Lenti Livraghi)

martedì 23 giugno 2009

IL CONCETTO DI DILUIZIONE, OFFUSCAMENTO E CORROSIONE DI UN MARCHIO


Nella vertenza L’Oréal SA contro Bellure NV, Malaika Investments Ltd e Starion International Ltd per contraffazione di marchi La Corte di Giustizia UE ha espresso un significativo orientamento definendo i contorni dei fenomeni di diluizione, offuscamento e corrosione di un marchio. (Corte di Giustizia CE, Sentenza 18 giugno 2009: Direttiva 89/104/CEE)

la Corte di Giustizia ha precisato che "il pregiudizio arrecato al carattere distintivo del marchio, detto anche «diluizione», «corrosione» o «offuscamento», si manifesta quando risulta indebolita l’idoneità di tale marchio ad identificare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato, per il fatto che l’uso del segno identico o simile fa disperdere l’identità del marchio e della corrispondente presa nella mente del pubblico.

Ciò si verifica, in particolare, quando il marchio non è più in grado di suscitare un’associazione immediata con i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato" ... mentre il "pregiudizio arrecato alla notorietà del marchio, detto anche «annacquamento» o «degradazione», si verifica quando i prodotti o i servizi per i quali il segno identico o simile è usato dal terzo possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere di attrazione del marchio ne risulti compromesso. Il rischio di un tale pregiudizio può scaturire, in particolare, dalla circostanza che i prodotti o servizi offerti dal terzo possiedano una caratteristica o una qualità tali da esercitare un’influenza negativa sull’immagine del marchio", infine la "nozione di «vantaggio indebitamente tratto dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio», detto anche «parassitismo» e «free-riding», non si ricollega al pregiudizio subito dal marchio, quanto piuttosto al vantaggio tratto dal terzo dall’uso del segno identico o simile.

Essa comprende, in particolare, il caso in cui, grazie ad un trasferimento dell’immagine del marchio o delle caratteristiche da questo proiettate sui prodotti designati dal segno identico o simile, sussiste un palese sfruttamento parassitario nel tentativo di infilarsi nella scia del marchio notorio".

Sulla base di quanto sopra la Corte, nella vertenza sopra riportata ha pertanto precisato che:

L’art. 5, n. 2, della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, dev’essere interpretato nel senso che l’esistenza di un vantaggio indebitamente tratto dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio, ai sensi di tale disposizione, non presuppone né l’esistenza di un rischio di confusione, né quella di un rischio di pregiudizio arrecato al carattere distintivo o alla notorietà del marchio o, più in generale, al titolare di quest’ultimo.

Il vantaggio risultante dall’uso da parte di un terzo di un segno simile ad un marchio notorio è tratto indebitamente da detto terzo dal carattere distintivo o dalla notorietà quando egli, con siffatto uso, tenta di porsi nel solco tracciato dal marchio notorio al fine di beneficiare del potere attrattivo, della reputazione e del prestigio di quest’ultimo, e di sfruttare, senza compensazione economica, lo sforzo commerciale effettuato dal titolare del marchio per creare e mantenere l’immagine del marchio in parola .

L’art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva 89/104 deve essere interpretato nel senso che il titolare di un marchio registrato è legittimato a esigere che sia vietato l’uso da parte di un terzo, in una pubblicità comparativa rispetto alla quale non ricorrono tutte le condizioni di liceità enunciate all’art. 3 bis, n. 1, della direttiva del Consiglio 10 settembre 1984, 84/450/CEE, [relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri] in materia di pubblicità ingannevole e di pubblicità comparativa, come modificata dalla direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 6 ottobre 1997, 97/55/CE, di un segno identico a detto marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui il marchio in parola è stato registrato, anche quando siffatto uso non sia idoneo a compromettere la funzione essenziale del marchio, consistente nell’indicare l’origine dei prodotti o servizi, purché tale uso arrechi pregiudizio o possa arrecare pregiudizio ad una delle altre funzioni del marchio .

L’art. 3 bis, n. 1, della direttiva 84/450, come modificata dalla direttiva 97/55, deve essere interpretato nel senso che un operatore pubblicitario il quale menziona in modo esplicito o implicito, in una pubblicità comparativa, che il prodotto da lui commercializzato costituisce un’imitazione di un prodotto protetto da un marchio notorio, rappresenta «un bene o un servizio come imitazione o contraffazione», ai sensi del medesimo art. 3 bis, n. 1, lett. h). Il vantaggio realizzato dall’operatore pubblicitario grazie ad una siffatta pubblicità comparativa illecita deve essere considerato «indebitamente tratto» dalla notorietà connessa a tale marchio, conformemente al suddetto art. 3 bis, n. 1, lett. g).

(Avv. Marco Lenti Livraghi)

USO DEL CELLULARE AL VOLANTE: LA PROVA DIABOLICA PER EVITARE LA SANZIONE


La Seconda sezione civile della Suprema Corte(sentenza 13118) ha bocciato il ricorso di un'automobilista della capitale, Tatiana P. che, nel 2005, si era vista recapitare a casa una multa per avere parlato al cellulare senza auricolare mentre era alla guida.

La donna, dopo la convalida della contravvenzione da parte del Giudice di pace della capitale (aprile 2005), ha tentato la difesa in Cassazione, sostenendo che chi parla al cellulare mentre guida dovrebbe essere fermato dal vigile. E se cio' non era accaduto era perche' il vigile si trovava ad una "certa distanza fra punto d'osservazione e il punto di ritenuta violazione, tale da consentire l' errore di percezione".

La Cassazione ha respinto il ricorso di Tatiana e, ordinando il pagamento della multa, ha evidenziato che ''la prova del possibile errore di percezione da parte dell'agente non puo' essere fondata su una valutazione presuntiva in ordine alla distanza del vigile".

Tuttavia, sostiene sempre la Cassazione, con una misurazione ad hoc "si sarebbe potuto provare la posizione effettiva dell'agente rispetto a quella del veicolo, cosi' da poter in concreto valutare se a tale distanza" il vigile avesse preso un abbaglio, vedendo cio' che non era.

Fermo restando, conclude la Suprema Corte, che "non e' neppure sufficiente dedurre la lontananza dell'agente dal luogo della violazione solo sulla base dell'omessa immediata contestazione, posto che tale accertamento puo' essere effettuato anche a distanza che, per svariati motivi, non permette il fermo del veicolo".

(Avv. Marco Lenti Livraghi)